Storia Silvi

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Storia Silvi2018-01-30T14:48:48+00:00

Le Origini
Le sue origini affondano radici in tempi lontani. Lo stesso toponimo fa riferimento alla primitiva natura boschiva selvae e, secondo alcuni storici, si legherebbe alla presenza di un tempio dedicato al Dio Silvano Selvans, uno dei primi numi italici adorato principalmente dai siculi, una popolazione indoeuropea del II millennio a.c. il cui culto si è protratto nel tempo attraverso gli etruschi e successivamente i romani, rivolgendosi alla protezione della natura e alle attività agresti. Tale ipotesi potrebbe essere ulteriormente confermata dal fatto che il primissimo insediamento costiero di Silvi è indicato con il nome di Matriunum dall’etimo siculo “atr”, a partire dal geografo greco Strabone (63a.c.-19d.c.) che ci parla di un porto commerciale presso la foce del fiume Matrino identificandolo come un epìneion, dotato quindi di strutture per lo stoccaggio delle merci, immagazzinamento e altri ambienti funzionali, al servizio di una città che ne distava alcune miglia ossia la forte e potente Hatria picena (Atri). Quest’ultima in tempi remoti prima di Roma, già rivestiva un ruolo egemone al centro della penisola ed aveva una moneta propria tra le prime monete in serie fuse che conosciamo. Gli storici e le fonti antiche le attribuiscono l’onore di aver dato il nome allo stesso Mare Adriatico, Hadria-Adriaticum. Le fonti romane narrano così della presenza su questo lembo di costa, di un pago marittimo, una mansio (stazione di sosta) con case, magazzini e taverne per viaggiatori indicato topograficamente nell’Itinerario Antonino e nella Tabula Peutingeriana (una copia del XII-XIII secolo di un’antica carta romana che mostrava le vie militari dell’Impero). Le antichissime origini di Silvi si legano in maniera inscindibile alla vicina Città di Atri, seguendone tutte le sorti come indiscutibile e fedele guardiana. Esse erano le protagoniste di un territorio identificato come Ager Hatrianus, all’interno del quale Silvi Alta fu la vedetta naturale avanzata della retrostante Hatria, grazie alla sua posizione strategica che le permetteva di esplorare lo specchio di mare antistante dove vi era l’antico porto di Matrinum. Il territorio era attraversato in epoca romana dalla Via Caecilia, una diramazione della Via Salaria che collegava Roma con l’Adriatico e di conseguenza verso l’altra sponda, principalmente con la Grecia senza tralasciare le Regioni Danubiane, e ciò consentì oltre ad un proficuo legame commerciale, un contatto precoce del territorio con tutta la cultura del Mediterraneo sin dai primordi. Secondo gli antichi la distanza da Roma facendo la Salaria era di 156 miglia . Dall’ Itinerario di Antonino si può leggere infatti : “SALARIA AB URBE HADRIAE USQUE M.P. CLVI.” Passò per questa spiaggia il console Claudio Nerone, il quale rifiutò vettovaglie e cariaggi per essere spedito nella sua fulminea marcia al Metauro dove, con l’uccisione di Asdrubale, si iniziò il rapido declino dell’offensiva cartaginese contro Roma. Nella guerra servile passarono per i nostri luoghi marittimi le orde devastatrici di Spartaco inseguite da Crasso. Tracce del periodo romano, di cui la città di Atri conserva le più elevate opere monumentali, sono state ravvisate nella zona di costa presso il piccolo colle chiamato “Colle Castelluccio”, all’altezza dell’attuale Pala Universo e distrutto secondo le fonti storiche, da un tremendo terremoto. Nel secolo scorso, durante la costruzione della adiacente Fiera Adriatica, furono rinvenuti frammenti di mosaici, monete e anfore vinarie e olearie, tenendo presente che i resti dell’antico porto giacciono a un chilometro di distanza sotto il pelo dell’acqua antistante la Torre di Cerrano. Da questo porto partivano i famosi vini narrati da Plinio (23 a.C.) e Varrone (116 a.C.) con i quali, come ci racconta anche Polibio, Annibale nel suo passaggio in Abruzzo per raggiungere Canne in Puglia nel 216 a.C., fece lavare i suoi cavalli affetti dalla scabbia, prima di confrontarsi per uscirne vincitore nella battaglia contro l’esercito romano. È questo il primo insediamento conosciuto circa le origini della città, anche se l’esatta localizzazione del pago marittimo appare spesso discussa dagli storici, tra i sostenitori che lo individuano alla foce del Vomano o del Calvano, altri nel Piomba o nel Cerrano. Ad oggi sappiamo con sicurezza che alla foce del fiume Cerrano vi erano strutture portuali nel periodo medioevale, i cui documenti ci danno esatta localizzazione a partire dalla Bolla di conferma del 1255 da parte del Pontefice Alessandro I, che ne stimò necessaria la ricostruzione e, poiché si tratta di un documento di concessione, è probabile che si riferisca a lavori di manutenzione di una situazione già esistente.

Dalla crisi dell’impero romano al Medioevo
La prima forma urbana collocata in altura sorse molto probabilmente col decadere della stessa Matrinum e l’esodo di una popolazione dedita alla pesca e impegnata nei fervidi commerci del mondo romano. Con la fine della pace duratura garantita dall’impero ci fu il fenomeno di abbandono delle coste a favore di insediamenti su siti d’altura, è in questo periodo che nasce il castrum Silvae, al tempo in cui vi stanziarono le milizie romane equipaggiate per fronteggiare le sanguinose invasioni barbariche. Disegnando uno scenario fuori dall’ordinario il Castrum Silvae, attuale centro storico di Silvi, è fortificato dalla natura stessa del terreno, dominando silenziosa e severa dall’alto, circondata di un vuoto naturale che ne rendeva difficile il raggiungimento e l’assedio permettendone al contempo l’avvistamento nemico da lontano e di approntarsi in tempo per fronteggiarlo. Dal castrum romanorum al Castellum Silvae “Castello di Silvi”, nel periodo medioevale il borgo è al centro di tumulti, assedi, occupazioni e scorrerie da parte dei saraceni, ma anche terra di passaggio di personaggi illustri e nobili dame. Si concorse con fanti e cavalieri all’alba dell’anno 1185, nella crociata per la liberazione della Terra Santa; quattro soldati con relativi serventi partirono dall’approdo marittimo con galeoni veneziani e genovesi per salpare i luoghi d’Oriente. Fu qui che approdavano mercanti d’ogni parte d’Italia, specie fiorentini, tra cui il padre di Giovanni Boccaccio che durante una carestia terribile nel 1319, sbarcò 500 salme (antica unità di misura del Regno di Napoli) di grano e altrettante di orzo. Era il tempo del grande Regno di Napoli e delle due Sicilie, anni che vedono il fiorire della vita religiosa permeata dal regio dominio, signori feudali, attività artigianali e fiorenti commerci che si svolgevano all’interno dei borghi, cinti da mura di protezione e porte di accesso vigilate. Anni che permangono nelle robuste e solide architetture in pietra e laterizio, nelle malte che tengono ancora salde le mura cittadine di recinzione e le architetture civili e religiose che ridondano di eleganza e stupore evocando tacitamente il peso del tempo trascorso. Tracce monumentali di questo degno passato rimangono oggi nella Chiesa di San Salvatore, che si erge nel cuore del centro storico di Silvi come simbolo dell’autorità religiosa, costruita a partire dal 1100. I suoi tre portali si prostrano sontuosi con i volti dei progenitori, in cui si denotano ancora le tracce di policromia utilizzate nella scultura medievale del periodo romanico ad imitazione delle opere classiche, che al contrario di quanto si pensi e si veda adesso, erano interamente e vivacemente colorate. Spicca tra le decorazioni fitomorfe degli archi a tutto sesto, degli scultori Rainaldo d’Atri e Raimondo del Poggio, la dorata corona della Vergine Maria dai tratti severi e rigorosi ancora tipici dell’arte scultorea romanica; il lacerto d’affresco con il volto della Santa principessa (Santa Caterina d’Alessandria) di matrice svevo-federiciana, tra i pochi esemplari di pittura in territorio nazionale di tale periodo, stagliandosi contro il muro di un interno barocco e riecheggiando con il giglio francese che tiene alla mano, l’importanza della passata dinastia svevo-angioina. E ancora nelle possenti mura esterne dell’edificio religioso, dal lato che da sull’antica porta, fu apposta l’epigrafe risalente all’anno 1275, durante il passaggio in terra d’Abruzzo del Re Carlo d’Angiò, testimoniando in maniera indelebile la fedeltà dell’Abruzzo ad egli. Percorrendo le antiche vie del borgo si ha come l’impressione di essere immersi in un passato senza tempo ricco di suggestioni, scorci panoramici mozzafiato, frammenti di vita e antiche tradizioni normalmente confinate e chiuse nell’incomunicabilità dei tempi moderni. Dal corso principale, Corso Umberto I, varcando quello che era l’antico punto d’avvistamento di cui rimangono ancora i posti di guardia, la cosiddetta Torre di Belfiore, si può avere un’idea di quello che era l’antico sistema di fortificazioni costiere durante il reame spagnolo. Durante l’antico regime aragonese operante nel Regno di Napoli, nel 1568, Alfonzo Salazar allora commissario del Presidente della Regia Camera di Summaria, dispose della costruzione di ben 14 torri costiere in Abruzzo. Si tratta di torri di avvistamento collocate a distanza tale da potersi vedere l’un dall’altra e inviarsi segnali di fumo in caso di avvicinamento nemico da mare. Nel tratto di costa antistante il borgo vi era una di queste quattordici torri, la celebre Torre del Cerrano, restaurata nel secolo scorso e divenuta il simbolo dell’Area Marina Protetta “Torre del Cerrano” istituita nel 2008. La Torre del Cerrano che prende il nome dall’omonimo torrente, oltre ad essere legata alle fortificazioni costiere dall’Abruzzo alla Puglia, comunicava verso l’interno tramite la suddetta Torre di Belfiore che provvedeva in caso di pericolo imminente, alla protezione ed evacuazione degli abitanti del borgo. Le scorrerie saracene gettavano paura e sconforto presso popolazione, tanto che un giorno un giovane di nome Leone alla vista dell’avanzata dei turchi che, sbarcati nel porto di Cerrano avevano già saccheggiato tutto quello che di utile c’era, cominciò a correre verso di essi con una fiaccola in mano. Più correva più il fuoco diventava grande, la luce era diventata talmente incandescente che gli invasori credettero che un intero esercito stesse lì ad aspettarlo e, per paura di perdere il bottino già conquistato, si ritirarono. Scongiurato il pericolo il giovane Leone fu proclamato eroe cittadino e ancor oggi si ripete con il medesimo fervore, la tradizionale festa di “Lu ciancialon”, che prevede l’accensione di fasci evocando il coraggio del giovane Leone, divenuto Santo patronale per volere della colonia degli Schiavoni introdotti in paese dal Duca d’Atri Giulio Antonio Acquaviva. L’accensione di fuochi si lega inoltre anche ad antichi riti propiziatori pagani praticati nelle campagne e davanti le chiese durante i solstizi, per auspicare la buona resa dei terreni. Alla fine del XV secolo la popolazione di Silvi era ridotta a pochi residenti e il Re Ferdinando il Cattolico pensò di rinsanguare e ripopolare il paese con l’immigrazione di molte famiglie cristiane fuggite dalle loro terre, invase dalle orde musulmane. In particolare numerose famiglie provenienti da Dulcigno, attuale Ulcinj, e per questo, fino al ‘900 si conservò l’uso di chiamare “Dulcignotti” gli abitanti di Silvi.

Verso l’età moderna, un territorio conteso
Verso la metà del ‘600 la situazione patrimoniale di Silvi comprendeva possessori di cinque classi, il Barone (Forcella) che pagava soltanto l’Adoha al re (contributo in danaro per ottenere l’esonero dal servizio militare “adohamentum” e permettere al re di reclutare altre milizi), la Chiesa che pagava i diritti al vescovo di Atri e Penne, i Vassalli che pagavano a nome dell’Università di Silvi al re quarantadue carlini per ogni fuoco e altre tasse; infine i Forestieri che pagavano la bonatenenza pari a dodici grane e quattro cavalli. La Torre di Cerrano continuava ad assolvere la sua funzione difensiva contro l’avanzata dei Turchi e “li fiscali” del Castello di Silvi erano riscossi dai governatori nominati annualmente dal Duca di Atri. L’Abruzzo a quel tempo faceva parte del grande Regno di Napoli (dal XIII al XVIII secolo) e nel 1468 il re Ferdinando d’Aragona confermò un antico diploma di Giovanna I in cui si stabiliva che Silvi e Atri dovevano essere retti dallo stesso Capitano. Lo stesso re nel 1470 vendette ad Atri i castelli di Silvi e di Bozza per 2500 ducati e nel giorno 27 Gennaio attraverso un regio delegato, si consegnarono le chiavi del paese con l’ottenimento del titolo di baronia. Nel 1701 il barone Domenico Forcella si trasferisce da Atri a Silvi sistemandosi nella loggia di Silvi Alta, da questo momento ha inizio un interminabile scontro per il possesso del Castello di Silvi tra questi e la Città di Atri, la quale avviò un lungo processo alla Regia Camera di Napoli per la riconquista del territorio. Nel 1705, sempre a causa delle incursioni dettate dai Turchi, si rinforzarono le mura del Castello con materiale a carico dell’Università e manodopera a carico del barone. In tale epoca s’inizia a fabbricare il nuovo campanile di San Salvatore e si ripara il torrione ponendo le guardie presso la porta del Castello. Il 1 Settembre del 1714, Silvi venne assalita dai Turchi che sbarcarono da tre galeotte dirigendosi verso il paese. Catturarono sedici persone trovate in due masserie e attaccarono la porta del Castello. Gli abitanti svegliati dal sonno accorsero alla difesa delle mura e alla vista del consistente schieramento nemico, armarono anche gli ecclesiastici. Dopo l’abbattimento della grande porta furono costretti a ritirarsi dentro il Castello Belfiore circondati di fuoco, si narra che i sacerdoti armati uccisero diversi Turchi e infine dopo devastazioni e diverse razzie, gli invasori si ritirarono portando con se i prigionieri. Ma questi sono anche gli anni che vedono la nascita della prima fabbrica di liquirizia nella marina di Silvi, per conto dei baroni Forcella, che negli anni a seguire sin in tempi recenti, portarono a ingenti guadagni soprattutto per l’esportazione all’estero, già a partire dai primi dell’800. Nel 1799 inizia l’occupazione napoleonica e la famiglia Forcella perde i diritti feudali a favore della Città di Atri. Si trattò di un breve periodo in quanto nel 1805 quando la Repubblica italiana si trasformò in Regno d’Italia, furono soppressi i privilegi feudali e Silvi si vede riconquistare i propri diritti. Con l’arrivo di Napoleone Bonaparte, che ugualmente abolì i privilegi feudali (agosto 1806) cessò la sudditanza di Silvi che ebbe, da allora, il suo primo sindaco. Silvi acquisì col tempo un’atmosfera galvanizzante, che non lasciò indifferente nemmeno il Re Vittorio Emanuele II, il quale, di passaggio il 16 Ottobre del 1860 si dichiarò compiaciuto e non sazio di ammirare tanta bellezza tra mare e collina in un delizioso giorno d’autunno… Il 16 Maggio del 1863 si inaugurò la ferrovia adriatica e la postazione dei carabinieri che si spostavano o a cavallo o a piedi. Nel 1883 nacque il “Casinò dell’Armonia” un posto dove gli aristocratici amavano rilassarsi e concedersi qualche “vizietto” e subito dopo nel 1887, si inaugurò il Club Marino frequentato anche dal noto scrittore Gabriele D’Annunzio. Alla fine dell’800 gli abitanti della spiaggia superarono quelli della collina. In realtà la nascita della Marina fu gemmazione non di Silvi Alta ma di Atri in quanto, a seguito della costruzione della ferrovia adriatica cominciarono a fiorire lungo la statale adriatica, pregevolissime dimore nobili della ricca borghesia atriana. Le famiglie aristocratiche frequentavano la costa nei mesi estivi per fare caldi bagni, concedersi una vita gaia attraverso balli nei club, fare eleganti passeggiate a cavallo lungo la via nazionale con portamento eloquente e testa ritta, esplicandosi in un’atmosfera di fascino senza tempo… Di queste splendide ville ricordiamo la Villa Orsini sull’attuale lungomare corso Garibaldi, e la Villa Bindi che si lega ad una vicenda molto particolare. La Villa Bindi a Silvi Marina si colloca nella collina prospiciente la Stazione Ferroviaria. Si tratta di una splendida costruzione opera dell’architetto Pilotti in posizione di predominio sul mare, e presenta tutte le caratteristiche della residenza signorile, circondata da vasto giardino con dependance sul retro oltre a stilemi tipici dell’architettura Liberty, sulla scia del noto Victor Horta. Traendo ispirazione dalla natura nelle forme vegetali attraverso l’accentuato linearismo ed eleganza decorativa, il periodo Liberty all’inizi del ‘900 scaturì un taglio netto con la tradizione architettonica classica divenendo in breve tempo lo stile della nuova borghesia in ascesa, con uno stile totalmente nuovo e originale rispetto a quelli allora in voga. La Villa era negli anni trenta del ’900 la nobile dimora del dottor Bindi, medico condotto di Silvi. Di origini fiorentine e blasonate, la famiglia Bindi si trasferì da Atri a Silvi dopo aver ristrutturato l’edificio secondo un progetto del su menzionato architetto, che ampliò l’edificio con la torre costruita ex novo, motivi di gusto eclettico che vanno dal bugnato ad elementi fitomorfi e marini, balaustre in ferro battuto e vetrate istoriate tipicamente Liberty, eseguite dall’artista Alfredo Ferzetti. Essa fu un tempo sede di innumerevoli cenacoli organizzati da Vincenzo Bindi e suo figlio Gaetano, cultori e collezionisti d’arte tra i più rilevanti d’Abruzzo, cui parteciparono i più illustri artisti e letterati abruzzesi degli inizi del Novecento come Cascella, Francesco Paolo Michetti, lo scrittore Mario Vecchioni, il commediografo Alfredo Luciani, etc… Una delle collezioni più rappresentative della ceramica di Castelli d’Abruzzo e degli altri centri di produzione della regione è proprio la cosiddetta “Collezione “Bindi”. Composta da cento opere, essa è il risultato di una vita di ricerche da parte del dottor Vincenzo Bindi e donata dal figlio dottor Gaetano Bindi, uno dei più famosi otorino d’Abruzzo, al Museo Capitolare di Atri nel 1976 in memoria del padre, raffigurato nel busto che “vigila” le vetrine ed al quale la collezione è dedicata. Frutto di sacrifici e rinunce, la collezione fu inizialmente motivo di dissapori tra padre e figlio. Col passare del tempo anche Gaetano iniziò ad avere la stessa passione paterna e, per esternarla, acquistò e donò al padre i due splendidi vasi di Francesco Saverio Grue, raffiguranti “La Natività” e “L’adorazione dei Re Magi”, che troneggiano in fondo alle sale dedicate alla maiolica, quale tacito pegno di amore filiale. La Collezione Bindi abbraccia un periodo di oltre tre secoli, a partire dagli inizi del 1600 sino a inizi del 1900, con opere di carattere aulico e da parata, mitologico, religioso, popolare e d’uso e fu custodita così gelosamente da sfuggire anche all’occhio vigile dei tedeschi grazie ad un’ardua mossa dei proprietari. Durante l’ultimo conflitto mondiale la villa divenne presidio dei tedeschi, così si pensò di nascondere le ceramiche sotto il pavimento della dépendance e celate da un’automobile. Fu fatto crollare il tetto della dependance al di sopra dell’automobile per non destare sospetto alcuno: la vettura fu sacrificata, ma le maioliche furono salve. Grazie a questo gesto oggi si possono osservare in tutto il loro splendore oltre che documentare l’evoluzione di un artigianato ormai talmente raro e ricercato. Quanto alla costruzione Liberty, ad oggi si presenta piuttosto integra, circondata esternamente da un piccolo parco con una vegetazione di gusto romantico. Rimangono intatti i salotti interni, le stanze da letto, il lucernario che porta alla torretta realizzato in ferro battuto, ove trapela la mistica luce simile ai rosoni gotici.

La grande Guerra
Il periodo della grande guerra fu cruciale per le città italiane. Con il D.L. del 17 Marzo del 1927 Mussolini aveva dato direttiva per la quale i piccoli Comuni incapaci di reggersi con i propri mezzi dovevano aggregarsi al Comune limitrofo più grande. Fu cosi che Silvi e Pineto furono aggregate ad Atri ma dopo due soli anni si tornò allo stato quo ante poiché non c’erano stati i risultati sperati. Il Comune di Silvi inoltre riottenne l’autonomia in quanto gli venne riconosciuta la capacità di raggiungere con i propri mezzi i fini istituzionali di interesse pubblico e nel 1931 ci fu un avvenimento istituzionale che mutò la storia di Silvi. La Marina ottenne il riconoscimento del Comune a discapito di Silvi Alta, che dopo la sua lunga e gloriosa storia si vede oltrepassata dalle nuove economie ed industrie, scollegata seppur di poco dalle grandi arterie stradali, rimanendo pur sempre bella e pittoresca nella sua incantevole e dominante posizione fronte mare, ove si cela il carattere più autentico della storia umana. Gli anni ’40 furono i più duri in assoluto, le fabbriche Saila e De Rosa non riuscivano a reperire più sul mercato la radica di liquirizia, i calzolai che erano numerosissimi, non riuscivano più a reperire cuoio e nel ’44 le masse popolari organizzarono vere e proprie manifestazioni di protesta insieme al fascismo che portò a conseguenze irreparabili. La fuga dei Reali d’Italia coinvolse in questi anni anche la Città di Silvi. L’8 Settembre del 1942 sul piazzale dell’aeroporto di Pescara comandato dal Marchese di Silvi, si fermarono due automobili con il vertice della monarchia: il re Vittorio Emanuele III, la Regina Elena, Pietro Badoglio, il Ministro dell’Aereonautica, il Ministro della Marina e venti ufficiali e funzionari dello Stato. Poco dopo arrivò il principe Umberto II. I fuggiaschi erano diretti a Bari nella zona d’Italia già liberata e attendevano che arrivassero ad Ortona due motovedette che li avrebbe portati al sicuro, ma questo non prima delle 21. Si decise perciò di allontanare i Reali dall’aeroporto in quanto la statale tiburtina era controllata dai tedeschi e, i 300 soldati italiani in aeroporto probabilmente non sarebbero stati sufficienti a difendere il re e il suo seguito da eventuali attacchi di militari tedeschi. Tale impeto coinvolse anche la principessa Mafalda di Savoia che sbarcò dall’aeroporto di Pescara, dove era stata per assistere ai funerali del re Boris e, non volendo assolutamente fuggire pur conoscendo il pericolo che correva, in quanto decisa a tornare a Roma dai suoi figli, accettò l’ospitalità del Marchese Martinetti sulla collina di Silvi Marina in una zona appartata. Due giorni dopo giunse il Capo dello Stato Maggiore di Chieti che accompagnava la principessa a Roma, ove il 13 Settembre venne arrestata per morire il 28 Agosto dell’anno successivo, nel campo di sterminio nazista di Buchenwald. Negli stessi anni gli abitanti della Città di Silvi furono costretti a sfollare con 6.000 abitanti verso Atri, portando appresso tutto quello che era possibile e necessario, con grande sacrificio e sotto il pericolo di possibili bombardamenti. Fu così che le singole comunità si trovarono dinnanzi ad una ambigua alternativa: egoismo o solidarietà. La comunità atriana, storicamente legata ai cittadini di Silvi, scelse istintivamente l’opzione solidaristica aprendo le porte ad essi, tenendo presente che già migliaia di sfollati erano qui arrivati da Chieti e Pescara. Erano in totale 20.000 sfollati su una città di 13.000 abitanti. A questo momento di grande umanità si ispirò probabilmente Ireneo Ianni nel Monumento alla Solidarietà sito in piazza Marconi nell’adiacente sede del Comune di Silvi. Un monumento pronto a riaffermare l’importanza della solidarietà e del reciproco aiuto come elemento fondante del vivere civile.